
ECO FASHION, scoprire la moda che non fa male all’ambiente
E se vi dicessimo che lo shopping compulsivo fa male a noi e all’ambiente?
Non è un’esagerazione.
Dietro ogni prodotto, infatti, esiste una lunga filiera di produzione che, soprattutto quando si parla di articoli a basso costo, raramente presenta dei processi etici e sostenibili.
D’altro canto, ormai, se ne parla sempre di più: acquistare un capo “green” è una scelta di rispetto verso il mondo, i diritti dei lavoratori e della nostra salute.
Un passo indietro nella storia della moda sostenibile
La moda sostenibile ha radici profonde che si intrecciano con il movimento ambientalista moderno.
Un punto di partenza fondamentale è rappresentato dal libro “Silent Spring” (Primavera Silenziosa) scritto nel 1963 dalla biologa americana Rachel Carson.
Potremmo affermare che da quest’opera tutto è cambiato: a partire dalla sua diffusione si è iniziato a parlare, infatti, del grave inquinamento associato all’uso di agrofarmaci e si sono messe in luce le conseguenze dannose per l’ambiente e la salute umana.
Grazie alla biologa, è cresciuta la consapevolezza di quanto sia importante preservare la natura, elemento essenziale per costruire la nostra felicità.
Da anni ’90 il dibattito si è poi evoluto e ha portato in risalto anche altre tematiche etiche che ruotano attorno al concetto di eco fashion, prima fra tutte le pessime condizioni di lavoro a cui vengono sottoposti collaboratori e collaboratrici in alcune zone del mondo.
ECO FASHION: quando una moda può essere definita SOSTENIBILE?
Fatte le dovute premesse ne consegue che, una moda sostenibile, si concentra sulla riduzione dell’impatto ambientale nella produzione di abbigliamento. Ciò significa adottare una filosofia di riduzione, riutilizzo e riciclaggio dei materiali.
Inoltre, una moda green, si occupa anche della trasparenza della filiera produttiva, garantendo che i processi produttivi siano tracciabili e tutelati.
Inquinamento e fast fashion: l’altra faccia della medaglia
Purtroppo, la strada verso la sostenibilità è lontana e il fast fashion è ancora troppo presente nel mercato mondiale.
Si tratta infatti di un sistema di produzione rapido che supera i 7 mila capi al giorno, a basso costo e di scarsissima qualità. Funziona ancor oggi perché vende pezzi a prezzi irrisori che fanno gola ai fashionisti abituati a sostituire di frequente i capi.
Questo modello di produzione ha un enorme impatto sull’ambiente, poiché richiede un’ingente quantità di risorse naturali e la creazione di una quantità incontrollabile di scarti.
Vediamo insieme quali sono i danni ambientali che ne conseguono:
- Consumo di acqua: la produzione di tessuti e la lavorazione dell’abbigliamento richiede un’enorme quantità di acqua, spesso danneggiando le popolazioni locali che, nella maggior parte dei casi, vivono già in condizione svantaggiate.
- Inquinamento idrico: le sostanze chimiche utilizzate nel processo contaminano le acque con evidenti ripercussioni su flora e fauna.
- Emissioni di gas serra: il trasporto di prodotti e la produzione richiedono l’uso di combustibili fossili, cause principali del cambiamento climatico.
- Rifiuti: gli indumenti di bassa qualità hanno una vita media brevissima, vengono quindi spesso gettati dopo pochi utilizzi diventando difficili da smaltire.
Un problema con numeri precisi e allarmanti
Lo sapevi che:
- La quantità di indumenti acquistati in Europa per persona a partire dal 1996 è aumentata del 40%
- Indossiamo i nostri capi per molto meno tempo. Rispetto a 30 anni fa, circa il 50% del tempo in meno.
- Ogni persona in Europa acquista in media 26 kg di vestiti l’anno.
- La quantità di capi d’abbigliamento effettivamente riciclati oggi è < 1 % .
Le soluzioni esistono, ma per applicarle è necessario imparare ad essere consumatori consapevoli.
Di seguito qualche consiglio:
- Controllare le etichette cercando parole come ‘organico’, ‘eco-friendly’, ‘fair trade’ o ‘vegan’ per assicurarci che il capo acquistato rispetti l’ambiente e i diritti dei lavoratori.
- Scegliere tessuti ecologici come il cotone biologico o il lino che non producono microplastiche durante i lavaggi.
- Acquistare capi Made in Italy per sostenere filiere artigianali, industriali locali e avere la garanzia di materiali di alta qualità.
- Comprare qualcosa solo SE necessario e scegliere alcuni capi durevoli da poter indossare per anni.
- Riciclare e riparare: invece di buttare via un capo di abbigliamento quando si rompe o non lo usiamo più, si può provare a ripararlo o donarlo.
- Acquistare second hand da siti come vestiaire collective o il celeberrimo Vinted.
Il fast fashion, oltre ai problemi evidenziati, è da tempo sotto i riflettori per le pratiche lavorative disumane. La sensibilità sulla materia sta cambiando e, i cittadini, aiutati dai governi, possono fare la differenza.
Un esempio proviene dal modello francese
Poche settimane fa l’Assemblea nazionale francese ha approvato una proposta di legge presentata a fine febbraio dalla parlamentare Anne-Cécile Violland secondo la quale verrà imposto un sovrapprezzo ai venditori di fast fashion.
Inoltre, è stato proposto l’inserimento in tutti gli e-commerce di abiti e accessori di fast fashion, di messaggi che incoraggino al riuso e alla riparazione fornendo informazioni sull’impatto ambientale dei prodotti.
Ma non è tutto. È stata proposta la tassa basata sul principio di Epr, cioè la responsabilità estesa del produttore nel gestire conformemente alle norme tutto il ciclo di vita del prodotto.
Infine, è stato chiesto di limitare la pubblicità che incoraggia l’acquisto di abiti e accessori prodotti da aziende di fast fashion, citando esplicitamente Shein.
Gli incassi generati da queste sanzioni verrebbero utilizzati per gestire la raccolta, il trattamento dei rifiuti tessili e per erogare dei bonus alle aziende che scelgono di produrre i capi partendo da principi di circolarità a basso impatto ambientale.
Cambiamenti come questi potrebbero davvero fare la differenza se venissero applicati con costanza e metodo da ogni paese, mettendo da parte- almeno in questo caso- il proprio tornaconto personale.
Noi, come cercatori di felicità, crediamo nella possibilità di una svolta sostenibile. Perché in fondo, ciò che ci resterà non saranno mai manciate di vestiti, ma la serenità del vivere in un modo pulito.
Semplicemente questo.
Questo Articolo vuole contribuire al raggiungimento dell’Obiettivo 03 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età.